Vanity Fair – Luca Abete incontra i giovani: «Anche io sono stato un ragazzo fragile»

Vanity Fair – Luca Abete incontra i giovani: «Anche io sono stato un ragazzo fragile»

L’inviato di Striscia la Notizia ci ha raccontato come è nata la sua campagna sociale, che dal 2014 aiuta i ragazzi a ritrovare fiducia in se stessi.

di Monica Coviello

Una sconfitta non pregiudica nulla, e anzi, può diventare uno strumento per riflettere sui propri errori e ripartire più motivati di prima. Lo sa bene Luca Abete, inviato di Striscia la Notizia, che dal 2014 incontra gruppi di ragazzi dell’università (e non solo) per incoraggiarli e istituire un dialogo con loro. La sua campagna sociale si chiama #NonCiFermaNessuno, ed è nata quasi per caso.

«Quando mi invitavano a parlare di giornalismo, legalità e comunicazione negli ambienti accademici, una delle domande più frequenti era: “Come hai fatto ad arrivare a Striscia la Notizia? Come hai coronato il tuo sogno?”. Quando iniziavo a rispondere, l’attenzione cresceva: ho capito presto che ai ragazzi nessuno aveva mai raccontato storie utili a trasmettere fiducia in se stessi. Io sono stato un ragazzo normalissimo: più che di lezioni di vita, gli studenti hanno bisogno di esempi credibili».

È così che Luca Abete ha pensato a un format apposta per i giovanissimi: prima li ha ascoltati, sottoponendo loro questionari specifici (che sono stati studiati dai ricercatori de La Sapienza), e ha cercato di comprendere i loro linguaggi. Poi sono cominciati gli incontri veri e propri.

Quanti ragazzi ha incontrato, da quando ha cominciato questa avventura?
«Ho organizzato almeno una decina di tappe all’anno, per nove anni, e ogni volta incontravo circa 200 o 300 ragazzi».

Di che cosa parlate?
«Essenzialmente di difficoltà e ostacoli, più che di successo: io ai ragazzi non racconto i momenti di gioia, ma quelli difficili, che hanno preceduto il raggiungimento di importanti traguardi. Queste testimonianze possono aiutare a superare le fragilità: è utile capire che dietro a un risultato ci sono spesso sofferenze, incertezze, paure e momenti bui. È successo a me, come a chiunque altro, e da questa consapevolezza si arriva a comprendere che avere paura o sentirsi fragili non è la fine del mondo».

Che cosa racconta di lei?
«Io sono nato ad Avellino: studiavo Architettura e sognavo di fare l’architetto, e intanto lavoravo come animatore per bambini ai matrimoni. Cercavo di fare le cose per bene: era un modo per sentirmi dignitosamente gratificato. I bambini, in me, vedevano un vero compagno di giochi: con loro avevo un successo enorme. Poi presentai un piccolo programma per bambini e feci una serie di esperienze che mi portarono a partecipare al concorso per i nuovi inviati di Striscia. Avevo tutte le difficoltà di chi parte dalla provincia e prova a giocare ad armi pari con la vita, e non ho avuto fretta. Per due anni sono stato “apprendista inviato”, e mi limitavo a un paio di servizi all’anno: in quel periodo ho conosciuto meglio me stesso e il territorio. Quella che tutti chiamano gavetta, per me è stata un’esperienza preziosa: non sapevo se ce l’avrei fatta, ma intanto diventavo più bravo e consapevole. Sbagliando e analizzando i miei errori».

Le storie più toccanti che ha ascoltato?
«Spesso sono quelle vengono poi valorizzate dal premio “Non ci ferma nessuno”, nato per dare un riconoscimento non tanto a ragazzi, ma alle storie che rappresentano il valore che scaturisce dalla vita di ogni giorno. Ricordo quella di un ragazzo arrivato dall’Africa in cerca di sicurezza e protezione, che poi si è laureato in Informatica. Ma anche la vicenda di un giovane a cui un incidente stradale ha cambiato ogni prospettiva, e che è stato in grado di rialzarsi e ricostruire la propria vita. Penso pure al ragazzo accoltellato da una baby gang. Insomma, ci sono tante storie che meritano di essere raccontate, ma non lo sono solo le imprese straordinarie: ognuno, nel proprio piccolo, deve andare fiero di quello che fa. L’idea del successo altera la percezione delle nostre vite: rischiamo di non essere più soddisfatti, quando invece dovremmo riappropriarci dalla bellezza di quello che siamo e ripartire da questa consapevolezza».

Che cosa ha apprezzato nei ragazzi che ha incontrato?
«Dopo la pandemia, i ragazzi sono più uniti. Il nostro obiettivo era quello di creare una community in cui le energie potessero entrare in circolo. E abbiamo riscontrato che sono tanti i giovani che si mettono a disposizione degli altri, che danno quel supporto con cui si può abbattere la solitudine, la nemica numero uno dei ragazzi».

Eppure i casi di suicidi fra gli universitari non sono così isolati.
«Sì, perché la pandemia ha anche acuito le difficoltà dei ragazzi più fragili, che di fronte a certi ostacoli non riescono più a immaginare una soluzione. Noi stiamo lottando anche perché le università diventino più attente, e siano più orientate alla formazione che al mero voto. Ma questa non è l’unico cambiamento importante e necessario: la trasformazione avviene quando ogni ragazzo diventa consapevole del proprio valore. Ricordo che in seconda liceo ero così timido che, quando ci invitarono a un talk show, non parlai. Eppure adesso lavoro in televisione. Spesso le risorse non emergono solo perché non le cerchiamo».

Che cosa suggerirebbe ai ragazzi per affrontare il futuro?
«Davanti alla paura del futuro, bisogna rendersi conto che il timore è comune a tutti. Occorre essere flessibili davanti ai progetti, non procrastinare e aumentare le proprie competenze, in modo da avere più certezza del proprio valore. Inoltre, consiglio di non temere il giudizio delle persone, e di non fare un dramma di fronte alle sconfitte. Bisogna cercare supporto, così quella stessa paura che oggi mi toglie il fiato, domani magari sarà già superata. Infine, se il futuro continua a spaventarci, possiamo sempre immaginare che non esista, ma oggi ce la dobbiamo mettere tutta per dare il nostro meglio. D’altra parte, il il futuro non è altro che la somma di tanti presenti».

Che cosa ha imparato da queste esperienze?
«Devo molto a questo percorso, perché mi ha rivelato chi sono veramente: le domande mi hanno costretto a raccontare me stesso e diventare più consapevole di quello che sono capace di fare e che posso costruire. Questo scambio di energie mi ha cambiato. Seguo quella che chiamo “la legge del clown”, che regala ironia e sorrisi senza volere nulla in cambio, e si nutre del gusto di vedere le persone felici. Questo progetto è autofinanziato e abbiamo incontrato anche qualche difficoltà nel portarlo avanti, ma quando sono in aula metto a disposizione tutto quello che ho, e mi sento davvero bene. Cercare di aiutare le persone che abbiamo intorno ci può restituire qualcosa di fantastico».

Fonte: VanityFair.it dell’8 maggio 2023

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